Venerdì 11 aprile, alle 17.00 nella sede di via Biffi.

Da tempo l’Isola che non c’è aveva l’intenzione di affrontare il tema della evidente crisi dell’Occidente, inteso come l’asse culturale, economico e politico dapprima europeo e poi euroamericano che per alcuni secoli ha dominato il mondo.
Alla luce degli ultimi eventi mondiali (in particolare i conflitti fra Russia e Ucraina e quello in Israele, e la svolta radicale seguita alla rielezione di Trump negli USA) la questione della crisi di quello che abbiamo chiamato Occidente si ripropone con una forza ed una drammaticità nuove.
In realtà di “tramonto dell’Occidente” si parla già da oltre un secolo, per lo meno da quando uscì l’omonimo libro di Oswald Spengler (1918, data quanto mai emblematica…). In quest’opera Spengler sosteneva che tutte le civiltà attraversano un ciclo naturale di sviluppo, fioritura e decadenza, e che l’Europa, vittima di un angusto materialismo e del caos urbano, si trovava nell’ultimo stadio, nell’inverno di un mondo che aveva conosciuto stagioni più fruttuose. L’Europa, a meno di riuscire a purificarsi e ripristinare i suoi valori spirituali e il suo ceppo originario, sarebbe caduta preda di politiche selvagge e di guerre di annientamento. Spengler, che partiva da presupposti ultraconservatori se non reazionari, intendeva la storia come un costante processo di decadimento anziché come evoluzione progressiva; in alcuni suoi scritti di carattere politico si dichiarò fautore di uno Stato fortemente autoritario, in parte vicino a quello preconizzato dai nazisti. Anche Mussolini fu profondamente ispirato dalle sue idee.

Oggi noi paventiamo invece il rischio di perdere quei valori di libertà, eguaglianza, democrazia liberale di cui l’Europa (e successivamente gli Stati Uniti) si sono dichiarati pionieri e diffusori nel mondo.
Le concrete vicende storiche, in particolare del XX secolo, hanno messo in evidenza le contraddizioni, sempre più vistose, fra questi nobili enunciati e la prassi economica e politica delle nazioni occidentali (le politiche colonialiste e imperialiste, la cosiddetta “esportazione della democrazia” promossa manu militari per decenni dagli USA…). E non è solo l’imperialismo politico-economico occidentale ad essere messo sotto accusa, ma anche quello culturale; cioè la nostra presunzione di rappresentare l’unica cultura veramente universale, il modello esemplare a cui tutte le altre dovrebbero riferirsi.
Sono proprio queste le accuse che vengono rivolte all’Occidente da quei paesi che si sono affacciati sempre più decisamente alla ribalta della storia mondiale (v. i BRICS, ma non solo). Quello che ormai si rifiuta apertamente da parte dei paesi emergenti – o del tutto già emersi – è proprio la pretesa occidentale di incarnare l’unica via possibile al progresso economico e allo sviluppo civile e politico; in particolare essi esprimono il rifiuto di accettare il modello liberale come l’unico tipo di democrazia possibile.
In questo contesto l’irruzione del ciclone Trump-Musk ha introdotto un elemento nuovo, che scompagina tutti i punti di riferimento a cui ci eravamo abituati.

Riteniamo quindi utile avviare una riflessione-discussione sul “destino” dell’Occidente – ed in particolare di quello che è stato il suo cuore, l’Europa – in questa fase storica gravida di rischi e di oscurità. Lo faremo partendo da due testi di facile lettura, che hanno il pregio di esporre con chiarezza due tesi opposte: una di radicale critica di tutta la vicenda dell’Occidente, l’altra di strenua difesa di quelli che considera i valori e le conquiste indiscutibili di questa parte del mondo.
Si tratta di C’è del marcio in Occidente (ed. Cortina) di Piergiorgio Odifreddi, e di
Grazie, Occidente di Federico Rampini (Mondadori).
Li presentano Giuseppe Uboldi e Ferdinando Cortese